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Dopo un’ora circa di cammino, vidi un drugstore aperto.
Entrai e presi una tazza di caffè. Era caffè riscaldato, nero e amarissimo; sapeva di medicina, proprio quello di cui avevo bisogno. Provavo già un certo sollievo, ma a quel punto incominciai a sentirmi felice. Che gioia, essere sola. Vedere la luce calda del tardo pomeriggio sul marciapiede, i rami di un albero, rinverditi da poco, proiettare le loro ombre scarne. Sentire dal retrobottega il suono della partita che l’uomo al banco stava ascoltando alla radio. Non pensai alla storia che avrei scritto su Alfrida – non a quella in particolare – ma al lavoro a cui volevo dedicarmi, più simile a una mano che acciuffi qualcosa nell’aria, che alla costruzione di storie.
Le grida della folla mi arrivavano come un violento battito cardiaco, pieno di sofferenza. Solenni, splendide onde sonore con il loro remoto consenso e il loro lamento quasi sovrumano. Era questo che volevo, questo su cui pensavo di dovermi concentrare: così volevo la vita.

di Alice Munro in “Nemico, amico, amante…”